Storytelling

Il Perdono del Mare


Francesco, un dono inaspettato

Sono passati dieci anni da quando un barcone diretto all’isola di Lampedusa si rovesciò. I migranti, stipati come sardine, appena videro una nave giungere in loro soccorso, si pressarono sul lato destro dell’imbarcazione, assaporando un’imminente liberazione da quell’orrendo viaggio intrapreso nelle peggiori condizioni di sempre. Quasi tutti avevano pochi soldi da investire e mille sogni da realizzare. Si salvarono solo una manciata di loro, mentre gli altri colarono a picco senza alcuna possibilità di scampo.

I soccorritori ebbero solo il tempo di afferrare le vite di chi, ormai allo stremo delle forze, annaspava per non affogare.

Quando la luce si trasformò in crepuscolo, la calma e il silenzio divennero irreali.

I soccorsi se ne andarono e una piccola imbarcazione, con a bordo due balordi, si apprestò a girare in cerchio nella zona, in cerca di qualunque cosa affiorasse a pelo d’acqua.

Incredibilmente, una vocina sommessa arrivò alle loro orecchie e, in lontananza, alla deriva, videro una tavola di legno che ospitava un piccolo passeggero: un bimbo di circa cinque anni, semiassiderato.

Lo raggiunsero, lo presero e lo portarono con loro.

Avvolto in una coperta e adagiato in una cassa di stoccaggio per la barca, lo condussero nel loro covo sulla spiaggia, dove i loro compagni li attendevano per vedere cosa fossero riusciti ad accalappiare: un piccolo uomo che li guardava impaurito.

La banda di rumeni, fra le altre attività, aveva a che fare con il traffico internazionale di migranti.

Fu cosa da ragazzi farlo giungere in Romania, creargli un nuovo passato, un nuovo nome, dei nuovi documenti e renderlo adottabile.

Venne adottato da una facoltosa famiglia italiana senza figli, residente in Puglia.

I suoi nuovi genitori lo crebbero con amore e Francesco li ricambiò, diventando un ottimo studente. L’incidente in mare cancellò, come con un colpo di spugna, il suo vissuto precedente ed ora era un adolescente che amava la sua famiglia, ma che si ritrovava sempre più spesso col peso di non ricordare chi fosse prima.

Flora, sua madre, percepì questo suo malessere e gli propose di assumere un investigatore privato per capire da dove provenisse.

Le indagini furono affidate a Enrico, un ex militare dei corpi speciali.

Scoprì che in Mali, in terra africana, molte persone affrontavano la traversata per cercare di capire cosa fosse successo, una decina di anni prima, ai loro congiunti di cui non avevano più notizie.

Erano soprattutto ragazzi e ragazze che all’epoca erano bambini, lasciati in affidamento ai parenti mentre i genitori cercavano una vita migliore in terra straniera, non solo per sé stessi, ma soprattutto per chi avevano lasciato laggiù, con mille speranze e promesse, donandogli solo una parte del loro cuore.

In un piccolo villaggio maliano, i ragazzi lasciati in affido vennero mandati a lavorare in miniera già poco più che bambini. Crebbe così in loro un profondo rancore, che li spinse a radunarsi in una banda, della quale un certo Mohamed era il capo indiscusso.

L’odio verso chi poteva stare meglio di loro li portò a istituire un commando punitivo contro chi, sopravvissuto, non si era più preoccupato di loro.

Partirono così per Lampedusa.

Le indagini minuziose e ben pagate di Enrico portarono a una pista: due fratelli maliani, un ragazzo di 16 anni e una ragazza di 18, stavano cercando i genitori e il fratello scomparsi in mare una decina di anni prima.

Era la pista più accreditata, in quanto la banda rumena, rintracciata in un carcere in Romania, aveva parlato di quella notte e di Francesco.

Le voci, come un tam-tam, si susseguivano nelle comunità formatesi nei vari centri di accoglienza per migranti.

Mohamed e Hawa, i due fratelli maliani, vennero così a conoscenza di Enrico e, attraverso lo stesso tam-tam, si resero reperibili presso il centro di accoglienza di Brindisi.

Enrico partì da Taranto con l’auto, nella speranza di aver intrapreso la pista giusta. Sapeva che in un’ora avrebbe raggiunto la sua destinazione.

Erano le 15:20 di un martedì di fine gennaio: faceva freddo, ma non freddissimo.

Ad attenderlo trovò solo Hawa.

Hawa parlava solo francese, ma non era un problema per Enrico. La invitò a bere qualcosa in un bar poco lontano, raggiungibile a piedi.

Seduti al tavolino del bar, Enrico guardò la bella ragazza che aveva di fronte e non poté fare a meno di notare la straordinaria somiglianza del suo sorriso con quello di Francesco.

Hawa spiegò a Enrico di essersi presentata da sola perché il fratello era minorenne e lei era la sua tutrice.

Al tavolino nell’angolo del bar c’erano due ragazzi maliani che indossavano felpe con cappuccio e occhiali da sole scuri, come se volessero nascondersi da qualcuno.

Enrico percepì che erano d’accordo con Hawa e volle vederci chiaro.

Decise quindi di andare subito al sodo, mostrandole una serie di fotografie, tutte di bambini maliani, chiedendole se riconoscesse qualcuno di loro.

Lei, incuriosita, guardò lentamente quelle foto, cercando di non far trapelare alcuna emozione.

Ma quando arrivò alla numero 7, le sue sopracciglia si inarcarono e questo non sfuggì a Enrico.

Scorse la numero 8, la numero 9 ed era finita la serie.

“Hai riconosciuto qualcuno?” le chiese Enrico.

“No! Non mi pare!” rispose lei.

“Ok, Hawa. Ora ti mostro gli stessi bambini, ma dieci anni dopo. Sono tutti ragazzini ormai, più o meno come tuo fratello Mohamed. Dimmi cosa ne pensi.”

Un leggero tremore nella mano destra, quella con cui sfogliava le foto, si accentuò alla vista della numero 7.

Enrico era ormai convinto che lei lo avesse riconosciuto e le chiese:

“Pensi che tuo fratello possa essere uno di loro?”

“No, no!” rispose lei.

“Issa non è fra loro.” ribadì.

“Je dois aller aux toilettes” incalzò con tono agitato e si allontanò dal tavolo.

I due ragazzi all’altro tavolo, che fino ad allora avevano finto di parlare di auto e motori, si alzarono, pagarono il caffè e uscirono, lasciando sola Hawa.

Hawa tornò e, non vedendo più suo fratello e l’amico, stroncata dall’emozione, guardò Enrico negli occhi. Una lacrima silenziosa scese a rigarle il viso.

“So che lo hai riconosciuto!” l’apostrofò Enrico.

“Ora ti faccio vedere una foto con dietro una dedica scritta di suo pugno in francese. Lui ha dovuto imparare l’italiano, ma non sa perché è madrelingua francese.”

La dedica suonava all’incirca così:

“So chi sono ora.”

Sono alla ricerca di chi ero prima,
prima che il buio calasse sui miei ricordi.
Sto cercando la verità,
mi hanno detto che mi ha partorito il mare.
Non so di chi sono figlio, né se ho fratelli o sorelle.
Ho una madre (Flora) e un padre (Sebastiano) che mi proteggono, ma per scoprire le mie origini e poter abbracciare anche un solo fratello o sorella, spenderò tutta la mia vita per trovarli.
Se proprio tu che stai leggendo fossi un mio parente prossimo, ti prego, vieni da me.
Il mio cuore è nelle tue mani.

Francesco

— Sì, Hawa, lui non ricorda nulla. L’angoscia e la quasi morte lo hanno restituito al mondo all’età di cinque anni senza ricordi.
Non è stato facile per lui accettarlo e continuare a vivere, ma è un ragazzo d’oro che merita che io non fallisca, che tu non fallisca! — le disse Enrico.

Ad Hawa mancò il respiro e scoppiò in un pianto disperato, svuotando il sacco e raccontando il loro vissuto e di come Mohamed fosse diventato il capo di una banda che avrebbe dovuto essere un commando punitivo. Tutto l’odio e il rancore si sciolsero come neve al sole.

Enrico lasciò ad Hawa la fotografia e il suo numero di telefono. Si accordarono affinché lei si consultasse con il fratello e, se fossero stati veramente intenzionati a incontrarlo senza odio e rancore, lui e i suoi genitori li avrebbero accolti con gioia.

La mattina seguente, il telefono di Enrico squillò prima dell’ora di pranzo.
Chi lo chiamava non era Hawa, ma Mohamed, che supplicò di poter abbracciare Issa, il fratello che pensava si fosse dimenticato di loro per volontà di non volerli più nella sua vita. Ma si sbagliava.

Enrico si accordò con Mohamed: l’indomani, alle 09:00 in punto, avrebbero trovato un’auto rossa fuori dal bar, che li avrebbe accompagnati a casa di Francesco. I genitori li avrebbero ospitati per il tempo necessario a definire le pratiche finalizzate a ottenere un regolare permesso di soggiorno per entrambi. Non li avrebbero lasciati soli.
Gli altri ragazzi del commando, invece, sarebbero stati rimpatriati su un volo di linea, poiché purtroppo nessuno dei loro congiunti si era salvato da quel tragico evento. Il tutto sarebbe stato a spese di Flora e Sebastiano.

Francesco non stava più nella pelle all’idea di poter abbracciare i fratelli e, nella lussuosa villa, venne allestito un ricevimento in grande stile.
Tutto era pronto, ma né i protagonisti né tantomeno i giornalisti, che volevano immortalare questo agognato incontro, erano preparati a ciò che li aspettava.

Arrivò l’auto rossa, varcò la cancellata della tenuta e, mentre il cancello si richiudeva, scesero Hawa e… Francesco? No, Francesco era a pochi passi da loro… e Mohamed.

Timidamente, Mohamed gli si avvicinò, chiamandolo con la voce spezzata:
— Issa… —

Quel fratello identico a lui, la cui mancanza lo aveva plasmato nella persona subdola che in realtà non era affatto.

L’abbraccio dei due gemelli fu mitizzato su tutte le testate giornalistiche, televisive e mediatiche.

Francesco, in quel momento, ebbe una scossa emotiva così forte da smuovere finalmente quel blocco di memoria inattaccabile da dieci anni. Chiamò Mohamed e Hawa con tale naturalezza che sua madre capì subito che li aveva riconosciuti e che i suoi ricordi di bambino erano riaffiorati.

Flora comprese immediatamente che Francesco aveva in realtà sedici anni, non quindici, come risultava dai documenti in suo possesso.
Capì che la loro famiglia, un tempo vuota, con l’arrivo di Francesco e ora di Mohamed e Hawa, non avrebbe mai potuto essere più completa e felice di così.

Vezzoli Elena