Ieri, matrimonio riparatore. Oggi, “Com’eri vestita?”
“Io non sono proprietà di nessuno. Nessuno può costringermi ad amare una persona che non rispetto, l’onore lo perde chi le fa certe cose, non chi le subisce”.
(Franca Viola)
È il 1966. La protagonista di questa espressione è Franca Viola.
Chi è Franca Viola?
Franca Viola nasce ad Alcamo, in provincia di Trapani (Sicilia), il 9 gennaio 1947.
Perchè è così famosa?
Perché è stata la prima donna, siciliana tra l’altro, a ribellarsi ed a rifiutare il matrimonio riparatore.
Ma cos’è il matrimonio riparatore?
“Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio, che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”.
(Art. 544 del Codice Penale Italiano)
È così che recitava l’art. 544 del Codice Penale italiano, il quale, insieme agli artt. 587 e 592 disciplinava il matrimonio riparatore. Preciso che tutti gli articoli sopra citati sono stati abrogati il 5 agosto 1981. Insieme al delitto d’onore. E “solo” quarant’anni fa!
In parole povere nel matrimonio riparatore, il reato di violenza sessuale decadeva se lo stupratore sposava la sua vittima. E, quasi sempre, la famiglia della stessa vittima la spingeva ad accettare, proprio per togliere il disonore, perchè non più vergine e, quindi, difficile che qualcun’altro potesse sposarla.
Franca Viola è figlia di contadini. All’età di quindici anni, si fidanzò con Filippo Melodia. Lui era figlio di una famiglia benestante ed era nipote di un mafioso della zona, Vincenzo Rimi.
In quel periodo, Melodia fu arrestato per rapina e per la sua appartenenza ad un gruppo mafioso. Fu così che il padre di Franca, Bernando, indusse la figlia ad allontanarlo ed a rompere il loro legame. Questa decisione non fu presa molto bene da Melodia, tanto che la famiglia Viola ricevette una serie di violente minacce ed intimidazioni; furono incendiati il vigneto ed il casolare annesso e lo stesso papà di Franca fu minacciato con la pistola (“chista è chidda che scaccerà la testa a vossia“, tradotto “questa è quella che le farà saltare la testa”).
È il 26 dicembre del 1965.
Franca ha 17 anni.
Melodia, con dodici suoi amici, fanno irruzione all’interno di casa Viola, devastarono l’abitazione, aggredirono la madre e rapirono Franca ed il fratellino di 8 anni, Mariano. Il fratellino fu rilasciato dopo poco, mentre Franca fu picchiata selvaggiamente, violentata, lasciata senza cibo e tenuta prigioniera per otto giorni, prima in un casolare e poi a casa della sorella di Melodia, ad Alcamo. Il giorno di Capodanno, il padre di Franca fu contattato dai parenti di Melodia, per convincere la ragazza al matrimonio tra i due. Questa richiesta non fu presa bene dai genitori della giovane e così denunciarono lo stupratore. D’accordo con la polizia, però, i genitori di Franca fecero finta di accettare. Il 2 gennaio 1966, la polizia fece irruzione, liberando Franca ed arrestando Melodia ed i suoi complici.
Nonostante la legge del tempo, tutti furono portati a processo. La difesa era basata sulla piena denigrazione della vittima.
Apro una parentesi in merito.
Questa situazione, di completo attacco della reputazione della vittima, da parte degli avvocati difensori degli stupratori, si presenta spesso, se non sempre, in casi di violenza sessuale. La vittima è automaticamente una “poco di buono”, una che si lancia facilmente in queste circostanze, anzi se le va a cercare proprio. Non si può certo negare che, per chi decide consapevolmente di denunciare ed ottenere giustizia, sia un percorso semplice. Anzi, la maggior parte delle volte, è una seconda, terza, quarta, quinta, ennesima violenza che si subisce!
Nel caso di Viola, la difesa cercò di sottolineare come lei fosse consenziente. E per fare ciò, portarono all’attenzione di tutti come la stessa fosse bendisposta alla cosiddetta “fuitina”. Questo era il modo più semplice, secondo loro, per ottenere il consenso al matrimonio.
Filippo Melodia fu condannato, in primo luogo, ad undici anni di carcere.
La Cassazione ridusse, a tutti, la pena a cinque anni e due mesi.
Apro una seconda parentesi in merito.
Nonostante la legge sia chiara, rimane comunque a libera interpretazione del giudice. La condanna definitiva arriva, dopo i vari gradi di giudizio, dopo che si sono lette, studiate, spulciate tutte le carte. Sembra che si cerchi un qualcosa per scagionare lo stupratore (o gli stupratori!), più che altro, invece di tutelare la vittima e darle giustizia. Penso che siano troppi i giudici uomini che si immedesimano, fin troppo forse, nel ruolo di coloro i quali devono alleggerire la posizione di quel “povero ragazzo che ha commesso uno sbaglio!”. Sono gli stessi che si chiedono “come fosse vestita quella donna”, “cosa abbia detto loro per scatenare la violenza”, “cosa abbia fatto lei per indurli a sbagliare”. Come se la loro fosse una missione. Loro, eroi che devono salvare quei poveri ragazzi!
È l’obiettivo che bisognerebbe cambiare!
Non è lo stupratore la parte offesa, colui il quale bisogna difendere dalla “vittima stronza che non aveva nulla da fare che mettere nei casini un povero ragazzo innocente!”.
La parte offesa è l’ABUSATA, colei che è violata nell’intimo, la sua dignità schiacciata, il suo essere DONNA messo al muro.
Bisognerebbe cambiare l’ottica con la quale si vedono le cose.
La legge non è solo mera interpretazione, ma dovrebbe subentrare l’umanità. Quell’umanità che ci fa osservare con gli occhi giusti e ci aiuterebbe a comprendere meglio la posizione di colei la quale, in quel momento, ha bisogno di sentirsi tutelata. La VITTIMA!
Non è semplice vestire gli abiti di una donna abusata.
È difficile comprendere cosa lei abbia subito, senza aver indossato le sue stesse scarpe.
Quelle scarpe sono assai scomode. Per questo, i giudici, molto spesso, preferiscono un ruolo più “superficiale”, invece di calarsi in quello più “profondo”. Si tratterebbe di capire le emozioni ed i sentimenti dell’abusata. Cosa che non è assolutamente per tutti!
Franca credeva che non l’avrebbe più sposata nessuno.
Ed invece, nel 1968, sposò Giuseppe Ruisi, un ragioniere, amico d’infanzia e suo compaesano. Lei cercò in tutti i modi di fargli cambiare idea, proprio perché aveva paura che potesse ricevere ritorsioni. Senza riuscirci!
L’8 marzo del 2014, l’allora Presidente del Consiglio, Giorgio Napolitano, le consegnò un’onorificienza. Quella di “Grande Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana”: “Per il coraggioso gesto di rifiuto del matrimonio riparatore che ha segnato una tappa fondamentale nella storia dell’emancipazione delle donne nel nostro Paese”.
Non tutti gli uomini di questa storia sono stati deleteri per Franca.
Come lei, poi, ha raccontato:
“Non fu difficile decidere mio padre Bernardo venne a prendermi con la barba lunga di una settimana: non potevo radermi se non c’eri tu, mi disse. Cosa vuoi fare, Franca. Non voglio sposarlo. Va bene: tu metti una mano io ne metto cento. Questa frase mi disse. Basta che tu sia felice, non mi interessa altro. Mi riportò a casa e la fatica grande l’ha fatta lui, non io. È stato lui a sopportare che nessuno lo salutasse più, che gli amici suoi sparissero. La vergogna, il disonore. Lui a testa alta”.
(Franca Viola)
Il papà Bernardo, un uomo che non si è adattato alle credenze dell’epoca.
“Mia figlia Franca non sposerà mai l’uomo che l’ha rapita e disonorata”. Questo è stato il suo, forse unico, commento sulla storia che ha segnato per sempre Franca. Lui, costantemente accanto alla figlia, ha combattuto i giudizi della gente. In un’epoca dove tutto ciò era impossibile! Oserei dire pura utopia!
E come non sottolineare la posizione di Giuseppe, suo “futuro” marito, anche lui in piena lotta contro la vendetta e la stessa gente. Quella stessa gente che l’avrebbe giudicato, solo perché ha deciso di sposare una “non vergine”!
Nonostante il matrimonio riparatore sia stato abolito, non posso non sottolineare come sia rimasta una cultura molto arretrata ed alquanto giudicatrice. La sua abolizione non è servita, infatti, a far cambiare il modo di pensare, l’atteggiamento da “giudici indefessi” di tante persone, le quali non smettono di dare il meglio di sé in certe situazioni. Situazioni che ricordiamo essere eventi altamente traumatici e duri da superare.
Prima ho parlato di “obiettivo” e continuerò a farlo.
La nostra società giudica una donna per il suo essere troppo provocante, rimarcando forse l’aspetto più evidente e che più contraddistingue questa caratteristica: l’abbigliamento.
“Come eri vestita?” è la domanda più frequente, se non la prima, che è posta alla vittima di stupro. Come se un pantalone attillato, una scollatura profonda, una gonna al di sopra del ginocchio o dell’intimo che si intravede fossero tutti dei segnali chiari per permettere la violazione della propria intimità. Un via libera allo stupro, insomma!
Come se bastasse un abbigliamento per subire una violenza!
Ci si sofferma su un aspetto superficiale, per non analizzare, nello specifico, problemi molto più ampi e più gravi, come la non accettazione del rifiuto, ad esempio. O come l’indole violenta dello stupratore, causata da abusi subiti quando era piccolo, in particolare.
Viviamo una società che si eleva ad emancipata, ma che è pronta a puntare il dito contro davanti a certi aspetti che contrastano con certi stereotipi.
Fa davvero tanto male, anche solo scriverlo (e provo ripudio nel farlo!), ma è incredibile come si possa anche solo pensare che un atteggiamento, un carattere, un abbigliamento considerato troppo provocante, possa stimolare talmente tanto un uomo, da legittimarlo o, addirittura, giustificarlo nel commettere uno stupro.
Non ci si mette nei panni di quella donna. NO!
Non riusciamo neanche immaginare come si possa sentire. NO!
Semplicemente, diciamo che “Quella gonna non l’avrei mai messa!”, oppure “Non mi sarei mai comportata così!”, senza minimamente pensare che, forse, un giorno, anche senza quella gonna o quel comportamento considerato troppo “aperto”, anche noi potremmo ritrovarci nella stessa situazione. Dita contro comprese nel pacchetto!
È importante parlare dei diritti della donna, ma non per allargare quel divario ancora esistente. Ma per non dimenticare le continue lotte di donne come Franca, le quali hanno voluto condividere le loro cicatrici, sperando che quelle ferite siano solo un brutto ricordo!