Storytelling

Vi presento Vincenza Lorusso, medico, missionaria, libera

Una mia amica, una sera di fine febbraio mi chiama e mi chiede se avessi voluto accompagnarla ad un evento. Era la presentazione di un libro e lei sa bene quanto mi piacciano queste cose. Occasioni per conoscere nuova gente, sì, ma soprattutto per ascoltare racconti di vita e, perchè no, imparare qualcosa.

Questo perchè credo fortemente che non si smette mai di imparare. E chi si sente “arrivato” è solo perchè ha paura di affrontare nuovi orizzonti, di andare oltre i propri confini. Anche se, sappiamo bene, i confini non esistono! Non per tutti, almeno!

L’evento in questione si sarebbe svolto sabato 2 marzo, in uno dei più bei posti caratteristici della mia città. E questo articolo lo sto scrivendo il giorno successivo. È domenica, orario post-pranzo ed ho avuto tutto il tempo di pensare, di riflettere, di metabolizzare alcuni messaggi che mi sono arrivati ieri. E perchè non scrivere qualcosa in merito? Perchè non condividere con tutti voi quello che ho vissuto ieri?

Lei si chiama Vincenza Lorusso. È un medico, un’infettivologa per la precisione. Un termine a noi molto sentito, visto il brutto periodo del COVID che abbiamo passato. Ma lei non si è occupata solo di COVID. Lei ha fatto tanto di più!

Vincenza non si sente una scrittrice. È un autrice di un libro, uno solo molto probabilmente. Durante la serata, infatti, ha più volte detto che questo sarebbe stato il primo ed ultimo libro che avrebbe scritto. Aveva “solo” (e qui le virgolette sono d’obbligo!) da raccontare una storia, la sua storia.

Lei è ha origini meridionali, pugliesi, di Gravina di Puglia, per essere più precisi. È nata e vissuta lì, in una famiglia rurale, quella di altri tempi. Non dirò la sua età, per rispetto, ma dirò solo che è una donna adulta, al di sotto dei 60 anni e, quindi, figlia di una cultura di quell’epoca. Meridionale, tra l’altro, un gran peso da 90!

Vincenza ha raccontato che non si è mai sentita parte integrante di questa terra. Ecco anche dove deriva il titolo del suo libro, “Le radici nell’acqua”. Una sensazione che ho sentito dire a tante persone, tra cui mia sorella. Lei, che si è sempre sentita “un pesce fuor d’acqua” della città in cui è nata e vissuta. Sensazione che, non nego, ho anche io!

Ricordo ancora quando ha parlato della sua sensazione d’ansia, quando gli nominavano gli ulivi. E tanto torto non aveva, se si pensa che, da piccolina, i suoi genitori non le facevano frequentare la scuola per farla andare a raccogliere le olive. Ma Vincenza non era come gli altri bambini. Vincenza, da piccolina, sapeva già che non era giusto saltare la scuola per andare a lavorare e si ribellava a tutto questo.

Vincenza sapeva già, all’età di 9 anni, che avrebbe voluto fare la missionaria. O, meglio, il medico missionario. Ha studiato “Medicina e Chirurgia” a Pisa, si è laureata ed è partita, in missione. Negli anni, ha girato l’Africa e l’America Latina. Tanzania, Uganda, Guatemala, come anche il Brasile, quest’ultimo, come ha ribadito più volte durante la serata, che gli è rimasto nel cuore. E questo suo attaccamento lo si leggeva benissimo sul suo viso, nei suoi occhi. Quando le si nominava il Brasile, le si illuminavano gli occhi ed un sorriso smagliante le segnava il viso. Ha parlato del Brasile con estremo affetto. Ci ha vissuto per anni, anche con la sua bambina, ora una bellissima ragazza di 28 anni, anche lei medico. Ed ora questa bellissima bambina, che tanto bambina non è più, è lì, nel suo amato Brasile.

La sua bambina si chiama Emily ed è per metà italiana e metà guatemalteca.

Le amiche e la famiglia si aspettavano che Vincenza, a quel punto, si fermasse, con la gravidanza, che si stanziasse in un posto. Ed invece no! Ha continuato a viaggiare, a lavorare in giro per il mondo, insieme alla sua biondissima bambina.

Vincenza ha operato la scelta di continuare a vivere nei villaggi sperduti dell’Africa, nel curare uomini, donne e bambini da malattie come tubercolosi e lebbra.

Durante l’intervista, molto toccante e sentita, ha parlato anche dell’attentato. Vincenza è stata vittima, il 25 febbraio del 1995, di un attentato e ne è uscita viva, seppur con del piombo incastonato nel suo cranio. Piombo che ancora oggi è lì, che fa parte integrante del suo corpo.

In questo caso, non ha voluto fornire dettagli. E, forse, è stato meglio così!

Ha parlato di questa sua disavventura con tanta dignità, con la voce rotta dall’emozione. Anche quella, in fin dei conti, è stata una sua esperienza, ma non ha voluto dargli tanta luce. Ha voluto rivolgere questa luce ad altro, a ciò che riteneva davvero importante.

Nel libro, ha voluto raccontare delle sue missioni, dei suoi progetti con la gente del luogo.

Seppur con storie diverse, mi ci sono ritrovata in parecchie cose che ha detto.

Una fra tutte?

Io sto bene se gli altri stanno bene”!

Una frase che dico sempre anche io, anche prima di conoscere Vincenza.

Il mio sociale non è minimamente paragonabile a quello che ha fatto Vincenza, non posso elevarmi al suo livello.

Non so se, al suo posto, avrei fatto quello che ha fatto lei.

Ci vuole coraggio, infatti, ad allontanarsi dal luogo in cui sei nata e vissuta, per cambiare totalmente vita, in un’altra cultura, dall’altra parte del mondo.

Ma Vincenza ed Emily hanno vissuto tante soddisfazioni, così come hanno ben compreso la fortuna che hanno nell’avere certe cose, considerate scontate.

Vincenza, durante il racconto, ha fatto notare quanto lei sia fortunata ad aprire il rubinetto e vedere scorrere l’acqua. Un’azione scontata per noi occidentali. Una rarità per quelle popolazioni. E solo andando lì e vivendo, fianco a fianco, ci si può rendere conto che tanto scontata non è!

Non vi nego che ho avuto timore a fare delle domande durante la presentazione. Non perchè lei mi avesse intimorita, ma cosa chiedi ad una donna così completa, così libera?

Lei ha sottolineato come le scelte della vita inevitabilmente hanno dei pro e dei contro.

Tutte le scelte!

Ha raccontato quanto alla figlioletta potesse mancare il calore di una famiglia, ad esempio, ma quanta cultura ha imparato, in tutti questi anni? Quanti tramonti diversi dai nostri ha potuto godersi? Quante mani ha potuto stringere? E quanto amore ha potuto donare?

E mi chiedo.

Noi che abbiamo subito la scelta dei nostri genitori nel rimanere qui, legati alla nostra terra, ancorate a quelle radici nel terreno che tutti noi conosciamo, quante cose ci siamo persi? Quanto avremmo potuto imparare? Quanto amore avremmo potuto ricevere e quanto avremmo potuto donare?

Queste sono tutte domande che mi sono posta durante la serata.

Ho avuto modo di parlare con Vincenza nel post-serata e, in quel contesto, mi sono fatta coraggio e le ho chiesto quello che avrei voluto chiederle alla fine della presentazione del suo libro. Non sapevo che avessi avuto questa opportunità. Come non avrei mai immaginato che ci saremmo scambiate i nostri contatti, un modo per rimanere sempre “legate”, in qualche modo. Anche se, né a lei, né tantomeno a me, piacciono i legami!

Vincenza mi ha colpita, lo ammetto!

Mi ha colpita perchè non è una donna come tante, ha tanto da raccontare, ha molto da trasmettere. Le sue emozioni le ho sentite tutte e mi sono arrivate al cuore. Non vi nego che è scesa anche qualche lacrimuccia!

Le parole di Vincenza mi hanno dato ulteriore forza. Mi hanno aiutata a comprendere che, seppur nel mio piccolo, io debba continuare a fare quello in cui credo.

Non aiuto migranti, o almeno non tutti i giorni.

Non sono una che va in Africa e fa chilometri per raccogliere un secchio di acqua sporca o a stringere la mano di un bambino, al quale mancano poche ore di vita, ammazzato dalla malnutrizione.

E non so neanche se fossi in grado di farlo!

Sono una persona alla quale piace aiutare, che sta bene quando gli altri stanno bene.

Mi ritengo una donna libera, dalla mente aperta, che va a cercarsi stimoli continui.

Sono pienamente consapevole che non possiamo ambire a cambiare il mondo. Come diceva Vincenza d’altronde, il nostro sarà un niente, ma quel “niente” mi fa stare bene.

Possiamo decidere di essere persone buone o persone cattive.

Possiamo scegliere di aiutare, come possiamo anche di non farlo.

Non sarò certamente io a dirvi cosa fare e cosa non fare.

Ognuno di noi sceglie di fare un qualcosa, sulla base di ciò che sente e sulla base di ciò che sa fare.

Ma, guardandomi intorno, dopo aver metabolizzato la serata di ieri, dopo aver riflettuto sulla storia e sui racconti di Vincenza, posso dire che abbiamo bisogno di molte più donne come lei, libere, ribelli, intelligenti, determinate, ma anche fragili, vulnerabili ed emozionate.

Vincenza, ieri, non ha raccontato solo le sue missioni in Africa. Il suo non è stato un freddo racconto di ciò che ha fatto.

Vincenza, ieri, ha dato insegnamento che possiamo portare avanti ciò in cui crediamo.

Che i sogni possono avverarsi.

Possiamo essere ciò che vogliamo essere, ma non senza sacrificio ed impegno da parte nostra, anche se, questo, significa allontanare persone che non accettano le nostre scelte di vita.

Ma non basta!

Vincenza, ieri, ha regalato emozioni.

È riuscita a mostrare le sue emozioni, a saperle gestire e dimostrare come si possa essere donne fragili, sì, ma con una forza encomiabile.

Grazie Vincenza!